Ieri sera presso l’Aula Magna Sapienza di Roma, per la stagione IUC (Istituzione Universitaria dei Concerti), un concerto fuori programma del Quartetto di Cremona con musiche di Beethoven, Janáček, Mendelssohn (qui il programma completo del concerto).
Il Quartetto di Cremona dedica un ciclo di concerti alle opere della maturità dei grandi compositori, ma un dubbio che penso legittimo è proprio quello che riguarda il concetto di “maturità”: quella dei compositori o quella dei musicisti del Quartetto di Cremona?
Non è un quesito da poco, ma penso che ad un certo punto del loro percorso artistico il Quartetto di Cremona abbia percepito oggi ancor più del passato, di essere pronto ad esprimere il messaggio intimo e “segreto” dei grandi quartetti, e di poterlo fare con una semplicità vera e non ostentata, e al tempo stesso ricca e complessa, propria di chi ha passato la vita a studiare opere di repertorio, nel tentativo a me pare riuscito bene, di esprimere il pensiero di un compositore.
Perché la difficoltà in un programma di brani “maturi”, non è solo quella esecutiva, ma soprattutto quella di mantenere una sorta di tensione drammatica pur nella diversità degli spiriti e delle epoche di appartenenza dei compositori. Per questo io credo che la maturità dimostrata dal Quartetto di Cremona sia da associare alla padronanza, né rigida e né autoritaria, con cui hanno eseguito la loro musica.
Fatta la premessa, ora possiamo passare ad un argomento a me molto caro: il suono. Il Quartetto di Cremona ci ha abituato negli anni ad una dimensione che io definirei non professionale del suono. Nota bene: non sto dicendo che il Quartetto di Cremona non sia professionale, perché negli anni ci ha abituato a concerti sempre unici ed originali. Fare musica, vivere di rendita su uno standard magari alto, come purtroppo accade spesso in tutti gli ambiti dell’arte, non paga in termini di originalità e creatività. Il Quartetto di Cremona in questo senso è altro, e per questo io lo definisco “non professionale”, ed è ammirevole la loro capacità di tenere alta la tensione creativa attraverso il tempo.
L’impegno e il perdersi completamente nella musica si è percepito nettamente ieri sera e il pubblico ha capito benissimo la qualità della musica e del suono del Quartetto di Cremona, complice anche l’importante acquisizione da parte del violista Simone Gramaglia, una bellissima viola di Giovanni Paolo Maggini del 1625 che la Fondazione Pro Canale gli ha affidato.
E’ ben risaputo che il violista è il cardine su cui ruota un quartetto d’archi, e la personalità di Gramaglia insieme alla sua viola precedente, una Gioachino Torazzi del 1680, ha fatto molto non solo per non smentire l’assunto di cui sopra, ma io ritengo che sia dotato al tempo di importanti qualità solistiche.
Con la viola Maggini è quindi cambiato anche il suono del quartetto, che a mio parere è risultato più pieno e ricco di sfumature. A scanso di equivoci, qui non parliamo di una viola che “suona forte”, perché la Maggini è tutt’altro che un mostro che esprime bruta potenza, bensì uno strumento capace di una proiezione non comune del suono, percepibile nettamente anche nei “pianissimo” più sussurrati e delicati.
Quindi uno strumento capace di “cucire” e di tenere unita la complessa tessitura del repertorio cameristico, tanto più se moderno, laddove la viola spesso emerge sovrana a sottolineare un ruolo per niente ancillare rispetto al contesto musicale.
Realtà questa che troppo spesso non sembra essere tenuta presente nemmeno in ambito sinfonico, se pensiamo che il quartetto nella sua essenzialità esprime la completezza di un’orchestra.
Testo e foto di Claudio Rampini